5/03/2020

20/04/2002 - I Seghieri a Livorno : l’emigrazione dei tortai altopascini tra le due guerre

Internet, si sa, spinge a raccontarsi: i cosiddetti “siti personali” costituiscono ormai una percentuale notevole delle presenze in rete e, nella maggior parte dei casi, riflettono gusti, passioni e manie di bassissimo livello culturale, quando non vere e proprie depravazioni. L’inutilità è spesso il loro segno distintivo; ad essa si accompagna. solitamente, un autobiografismo superficiale sul piano filosofico e sciatto su quello letterario.
Non tutto, naturalmente, è così, ma le poche eccezioni non sono sufficienti a far comprendere le enormi potenzialità che i nuovi media avrebbero in questo campo, in particolare muovendosi sul filo della memoria. Parlare liberamente di sé, dei propri ricordi, dei ricordi dei propri nonni, delle attività scomparse, dei luoghi spariti è un modo di cominciare a costruire dal basso la nostra storia comune, come sommatoria di tante storie individuali.
E’ chiaro che tutto ciò deve essere fatto in una logica di condivisione e di scambio con i potenziali lettori, abbandonando ogni narcisismo velleitario e cercando invece di trovare nelle vicende narrate o illustrate un respiro universale, riconoscibile da chiunque.
L’esempio che si porta di solito è quello di
Michel de Montaigne, che fece dell’autobiografismo lo strumento d’indagine principale per la propria opera di filosofo e di moralista. Senza arrivare a tanto, bisogna comunque osservare che, secondo alcuni, l’autobiografia è una vera e propria arte, da coltivare con metodiche affatto particolari.
Chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, può collegarsi al sito della Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari
, fondata nel 1998 da Duccio Demetrio (professore di pedagogia all’Università di Milano). L’iniziativa, nata sulla scia della vicina esperienza dell’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, mira soprattutto a formare, attraverso corsi e seminari, delle figure di educatori autobiografi, vale a dire operatori in grado di aiutare a scrivere la propria biografia chi, per vari motivi, non sia in grado di farlo in modo autonomo. L’impostazione generale è di tipo prevalentemente pedagogico/filosofico e orientata al sociale (promozione dell’autostima in anziani, disabili, giovani in situazioni di disagio, ecc.).
Sebbene non pensati in modo specifico per orientare la scrittura autobiografica in rete, i seminari che si svolgono ad Anghiari possono comunque essere utili a chi desidera cominciare a scrivere consapevolmente in questo campo.
Decisamente indirizzata verso Internet è invece la rubrica Raccontarsi in rete, tenuta da Ada Ascari sul portale “Supereva”: sebbene sia organizzata in modo un po’ farraginoso e ospiti anche materiale di basso livello letterario o infelici tentativi autopubblicitari di aspiranti scrittori, è tuttavia interessante per i numerosi link a iniziative, seminari, esperienze che si rifanno al tema in questione.
Ma raccontarsi non significa soltanto parlare consapevolmente di sé, ma anche semplicemente testimoniare quella che è stata l’esperienza esistenziale, lavorativa, affettiva di persone a noi vicine, ora scomparse. In questo caso l’elaborazione formale diventa meno importante, o si può addirittura preferire che venga evitata. Si tratta invece di restituire, senza troppi filtri, la vita di un altro, magari servendosi di documentazione originale da lui prodotta o raccolta e di cui noi siamo in possesso, ad esempio, per lascito familiare: diari autografi, fotografie, ritagli di giornali, ecc.
In questa tendenza si inquadra un curioso fenomeno che si sta affermando in Internet: accanto ai “siti personali” di cui si è detto, capita sempre più spesso di imbattersi in siti commerciali, i cui creatori, anziché limitarsi a pubblicizzare l’ attività svolta attualmente, cercano di arricchire le pagine web con una storia della propria famiglia e del proprio negozio, di come questo si sia tramandato da una generazione all’altra e di quali siano le sue peculiarità artigianali. Il tutto corredato spesso da foto d’epoca.
L’interesse di queste pagine (sia pure dettate da ragioni prevalentemente commerciali) è indubbio, perché illumina su aspetti minori e poco conosciuti della cultura materiale e popolare.
Un esempio notevole (sebbene il sito sia realizzato in modo piuttosto rudimentale), è quello del Tortaio Seghieri di Livorno.
Dire “Seghieri”, a Livorno, è come dire “torta di ceci”, che è l’equivalente della “farinata” genovese. Ma per chi non conosce né l’una né l’altra, la cosa non appare molto significativa. Eppure si tratta di un vero emblema della cultura popolare livornese, forse più del notissimo cacciucco (se ne può trovare la ricetta sul nostro sito, cliccando qui).
Tipico piatto povero di area mediterranea, la torta può vantare origini millenarie, risalenti forse alle truppe romane che occupavano Genova. Ma sicuramente, nel Medio Evo, furono determinanti per la sua diffusione l’apporto degli Arabi e quello delle Repubbliche Marinare.
Oggi la torta di ceci (o farinata) è presente in tutta la fascia costiera che va dalla Bassa Maremma fino alla Costa Azzurra (dove è nota col nome di socca): se Genova è indubbiamente il suo luogo d’origine, Livorno è - come scrive Santini - la sua seconda patria.
Ma la storia livornese della torta non sembrerebbe risalire a più di un secolo fa, e, soprattutto, non viene, come si potrebbe immaginare, dalla vicina Pisa (dove forse era presente fin dai tempi della Repubblica Marinara), ma bensì da Altopascio. Si inquadra dunque in quell’ampio movimento migratorio relativo al comparto alimentare/ ristorativo (cuochi, osti, tortai, fornai) che ha caratterizzato, nella prima metà del Novecento, il territorio di Altopascio, e che è difficile non mettere in relazione con le importantissime tradizioni medievali di ospitalità, rappresentate dai Cavalieri del Tau.
Per quanto riguarda i tortai, il periodo d’espansione si colloca soprattutto negli anni 1910-1920, quando famiglie altopascine sono attestate non solo in Toscana (Livorno, Portoferraio), ma anche altrove (La Spezia, Bologna). A Livorno, in particolare, furono i Seghieri, a importare (o comunque ad affermare) la torta di ceci: Ottavio, il capostipite, si trasferì da Altopascio a Livorno nel 1910 e dette inizio a una dinastia, cui sono legate, più o meno direttamente, molte delle più famose botteghe attualmente presenti in città: “Cecco” (figlio di Ottavio, oggi gestita dalla famiglia Casotti), “Seghieri” (gestita da Vittorio, bisnipote di Ottavio), “Gagarin” (soprannome del Brizzi, ex-lavorante di Elio Seghieri).
Tutte queste notizie, insieme ad alcune foto d’epoca, Vittorio ha deciso di raccoglierle e pubblicarle sul suo sito, facendone così non un mero strumento pubblicitario, ma una testimonianza di storia (solo apparentemente) minore: quella del tortaio Seghieri e di una Livorno popolare ormai scomparsa. Una Livorno che, per sfamarsi, si accontentava del famoso “cinque e cinque”: cinque centesimi di torta e cinque di pan francese, acquistati per strada.

Franco Galleschi

P.S. - Il titolo dell’articolo intende suggerire un possibile argomento per una tesi di storia economica, della quale non mi risulta, a tutt’oggi, l’esistenza.
2° P.S. - La foto risale al 1954 e ritrae (da sinistra): Alfredo Seghieri (figlio di Ottavio), Valentina Bellandi (moglie di Elio), Tullio (garzone di bottega), Elio Seghieri (figlio di Alfredo), Rinaldo Bianucci (addetto alla cottura); il luogo è la bottega di via E. Rossi, 19 (ancor adesso esistente).

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