5/03/2020

10/03/2002 Mio nonno assomigliava a Buñuel

Luis Buñuel
Mio nonno assomigliava a Buñuel. Ma alla sua morte nessun giornale gli ha dedicato un "coccodrillo". Forse perché non ha mai girato un film; e, per problemi di vista, credo sia anche andato di rado al cinema.
Eppure ha lavorato duro tutta la vita: si spaccava le mani e la schiena a rattoppare per l'ANAS le strade della Val di Cornia, e quel poco di energia che gli rimaneva la spendeva come manovale in qualche cantiere o sui campi come bracciante. Ma per il resto era simile a Buñuel, avevano perfino la stessa età: entrambi nati nel fatidico 1900, l'uno a Calanda, in Aragona, l'altro a Suvereto, in Maremma.
Si definiva socialista, ma certo negli ultimi tempi doveva essere disgustato dal craxismo imperante. E in realtà credo fosse più anarchico che socialista. Chissà cosa avrebbe pensato del film "Las Hurdes", se avesse potuto vederlo. Era di famiglia contadina, mio nonno. Mezzadri, naturalmente. Ma erano in troppi per il podere di cui disponevano e presto fu costretto a uscire di casa: dopo il matrimonio con mia nonna provò a mettersi in proprio come mezzadro, ma l'impegno era eccessivo.
Già allora, benché giovane, la vista lo tradiva. E il resto lo faceva il vino. Dovette lasciare il podere e si mise a fare lo stradino. Fu questo il suo lavoro per quasi tutta la vita; ma spesso tornava sui campi per aiutare amici e parenti nella vendemmia o in qualche altra attività stagionale. Si faceva pagare in natura, per arrotondare il bilancio di casa.
A volte gli bastava un po' di vino. E le sbornie
erano frequenti, per la disperazione di mia nonna. Sbornie "tristi", spesso, ma in qualche caso anche "allegre". E allora cominciava a cantare di poesia: strofe estemporanee in ottava rima, nella migliore tradizione toscana.
Senza conoscere il Berni, si autodefiniva bernesco, il che, per lui, era come dire: di umore imprevedibile, inaffidabile, portato alle facezie.
Era arguto, mio nonno, e gli piaceva "giocare" con le parole, inventarsele, storpiarle. Si era creato una lingua propria, un vernacolo maremmano infarcito di "fiorentinismi" caricaturali, rivolti soprattutto alla derisione dei cosiddetti bagnanti che, durante l'estate, calavano in massa dal capoluogo verso la costa degli Etruschi.
"Vu' ssète buffetti!" - era il suo modo di apostrofarli. Ma "buffetti", nel suo gergo, erano tutti coloro che lo infastidivano o turbavano la quiete della sua pipa. Quando, ormai in pensione, trascorreva le giornate sotto il pergolato, lo si sarebbe detto in possesso di una atarassia quasi olimpica: un sovrano distacco dal mondo, che si esprimeva ogni tanto in frasi lapidarie e sibilline o in scampoli di saggezza popolare.
"Il mi' cervello è diviso 'n tre cassetti: due son voti, e nel terzo 'un c'è niente!" soleva dire. Ma non era vero: c'era poca erudizione, indubbiamente, ma, in compenso, si sarebbe trovato in quei cassetti un'intelligenza sottile e penetrante, un gusto dissacratorio, un sarcasmo feroce, che erano poi i veri connotati (al di là di quelli fisici) che lo avvicinavano a Buñuel.
Quando qualcuno lo inquietava, lo preavvisava di una possibile reazione, toccandosi l'occhio destro e dicendogli: "Lo vedi, quest'occhietto che balla? ". L'"occhietto ballerino", di cui si fregiava, era un po' il simbolo di una vena di follia alla Ligabue, che gli piaceva pensare di possedere.
Ma si trattava piuttosto di un certo anticonformismo, di una certa insofferenza per le regole: il gusto, tutto buñueliano, di "épatér les bourgeois". Come quando diceva che il suo piatto preferito era una fantomatica minestra di ghelle e pungitopi, i cui ingredienti lasciavano sconcertati gli uditori.
A parte i cibi inventati, era un grande mangiatore di pappa al pomodoro, "zonzelle " (pasta di pane lievitata e fritta, magari con ripieno d'acciughe) e "migliacci" (frittelle fatte con una pastella molto liquida di farina di frumento). Detestava l'aceto, che considerava un tradimento del vino. Ed era ghiotto di quello che chiamava pane alla mi' moda;(una specie di panzanella con parecchia cipolla). Quando ne divorava una quantità eccessiva, sosteneva che quel giorno aveva mangiato troppoli;(voce dialettale che sta per "sgabelli o tronchi di legno utilizzabili come tali").
Il gusto della creatività linguistica sembrava provenire in lui direttamente dalla tradizione della novellistica toscana del Trecento: Boccaccio, Sercambi e soprattutto Sacchetti.
Negli ultimi anni era completamente cieco e forse stanco di vivere: io però lo vedevo come una via di mezzo tra Brassens (per la pipa e i calembours), Borges (per la cecità), e Buñuel (per la somiglianza fisica e l'anarchismo).
Era comunque uno spirito libero, e, nella mia mappa cromosomica, credo, per alcune cose, di essergli debitore.
Per questo continuo a meravigliarmi che, alla sua morte, nessun giornale abbia pensato di dedicargli un articolo.

Franco Galleschi

P.S. Questo articolo è dedicato non soltanto a mio nonno, ma anche a quanti ritengono che la storia possa e debba essere riscritta dal basso, per non disperdere la nostra memoria collettiva, fatta prevalentemente di tradizione orale.

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