7/01/2011

03.01.2002 - Scuotere le coscienze

Commento di Franco Galleschi a una breve opera di Wallace Shawn, intitolata La febbre. Si tratta, in base alle scarne note di regia poste come epilogo, di un testo teatrale destinato ad essere rappresentato in luoghi non canonici e rivolto a piccoli gruppi di spettatori, con finalità che potremmo quasi definire di agitazione politica.

Per chi non lo ricordasse (o non avesse letto il libro), la materia drammatica è fornita dal percorso di autocoscienza dell'Autore, in evidente sovrapposizione con l'io narrante.
Partendo da un'accettazione acritica del modello ideologico occidentale (secondo il quale è normale che il 20% della popolazione mondiale consumi l'80% delle risorse disponibili e che, di conseguenza, nel resto del mondo, ci siano fame, guerra e miseria), egli arriva, poco a poco, a mescolarsi alla realtà fino a quel momento negata, fino a farsene quasi fagocitare.
Lo ritroviamo così, in preda alla febbre (una specie di infezione morale) , in una putrida camera d'albergo di un paese del terzo mondo, dove giungono gli echi delle torture e delle esecuzioni sommarie riservate agli oppositori politici dal regime dominante.

In un crescendo di allucinata violenza verbale/descrittiva, l'Autore giunge a rinnegare la propria appartenenza di classe (la media borghesia statunitense) e i suoi alibi morali, per farsi carico di una realtà ben più complessa, dove niente è dovuto al caso, ma bensì alle nostre responsabilità, in quanto occidentali, verso il resto dell'umanità.
Perché, se è vero che responsabili lo siamo collettivamente, non lo siamo certo di meno sul piano individuale: si può anzi dire che proprio questo è il tema forte di Shawn, quello che sembra ispirare e giustificare la crudezza di alcune pagine. Ecco dunque rivelarsi un fine quasi "agit-prop": quello di scuotere le coscienze assopite del proprio pubblico di riferimento, costringendolo a una revisione critica delle proprie certezze.
Ma revisione non significa, di per sé, azione. Come sottolinea Goffredo Fofi nella postfazione, l'Autore si ferma sulla terribile soglia, sospeso fra autocoscienza e azione, e documenta di fatto l'ennesimo fallimento, sul piano pratico, di un intellettuale newyorkese, rinviando (ad altri?) l'attuazione di ciò che non è stato capace di realizzare.
Si può dunque affermare che,là dove finisce (forse) la falsa coscienza dell'individuo, inizia senza alcun dubbio la falsa coscienza dell'artista
Resta peraltro il fatto che il potenziale choc emotivo, indotto dal testo sui lettori o sugli spettatori, è sicuramente notevole; ed è questa la ragione per cui, con Cavallini, ci siamo soffermati a pensare alla sua eventuale utilizzazione a tale scopo. La domanda è: diffondere (in forma filmica o anche in rete) un'opera di questo genere può aiutare almeno una piccola parte dei suoi fruitori (in particolare i giovani) a maturare una coscienza critica nei confronti dei nostri immarcescibili dogmi occidentali? E questa coscienza critica è in grado di determinare, almeno in un'ulteriore minoranza, delle scelte di vitaconseguenti?
Purtroppo le mie opinioni al riguardo sono abbastanza pessimistiche, soprattutto in relazione al secondo punto. Infatti, se da un lato la sensibilità a questi temi comincia ad essere relativamente diffusa (soprattutto all'interno di quell'area di movimento che definiamo genericamente "no-global"), dall'altro la partecipazione attiva si limita spesso a qualche manifestazione di piazza o al sostegno economico (pur sempre lodevole) a qualche associazione umanitaria.
Ciò che risulta difficile chiedere (agli altri e a noi stessi) sono le svolte radicali, quelle con le quali ci si chiude la porta alle spalle e si parte: senza certezza di ritorno, senza garanzia di sopravvivenza, pronti alla condivisione totale. Solo in questo modo la fame e la guerra cessano definitivamente di essere un problema teorico: è la scelta di Gino Strada, e di pochi come lui.
Scelte di questo tipo richiedono un coraggio che la maggior parte di noi, in occidente, non ha; e poco possono, in tal senso, le spinte emotive provenienti dalla lettura di testi come quello di Wallace Shawn, se non a replicare in altri i fallimenti esistenziali e le frustrazioni politiche descritte dall'Autore.
Ben più illuminanti sono sicuramente le opzioni di vita sopra esemplificate, ma destinate purtroppo a rimanere fenomeno di élite, largamente minoritario sul piano politico, e quindi scarsamente influente sulle decisioni dei governi.
Il quesito assillante per l'intellettuale che non si rassegni, nonostante tutto, a definirsi dégagé diventa allora: se partire (o convincere a partire) è così difficile, che cosa si può fare qui e ora per aiutare, anche concretamente, un processo di riavvicinamento fra i popoli e di redistribuzione delle ricchezze su scala mondiale?
Forse più di quanto molti di noi pensino, purché ci sia la capacità di riannodare lo straordinario portato culturale della storia europea con le nuove occasioni offerte dai movimenti migratori e dai supporti tecnologici del XXI secolo.

Franco Galleschi

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